Ritagli di vocazione

Intervista a Cristiano Bellino

A 21 anni verso il presbiterato: “a tu per tu” con Cristiano 


“Siamo in sette, provenienti dalle cinque diocesi della provincia di Cuneo; viviamo qui a Fossano dal lunedì al venerdì, torniamo a casa nei week end per prestare servizio nelle nostre parrocchie delle nostre diocesi”.

A parlare è Cristiano Bellino, 21enne di Bene Vagienna che, nonostante la giovane età, ha già compiuto una scelta decisiva per il suo futuro – quella di intraprendere il cammino per diventare sacerdote. Dopo un anno di preparazione a Torino, è approdato, da circa due, al Seminario Interdiocesano di Fossano, dove proseguirà la sua formazione: il percorso che porta all’abito talare dura, in totale, sette anni.

Non molto tempo fa, un giovane che “si fa prete” non era una notizia. Oggi, in pieno calo delle vocazioni, lo è: Cristiano, che incontriamo a Fossano in un giorno di pioggia, è peraltro l’unico seminarista proveniente dalla Diocesi di Mondovì, cui appartiene il territorio di Bene Vagienna.

 

Iniziamo con la domanda più banale e necessaria: perché hai fatto questa scelta?

Sono cresciuto nell’ambiente della parrocchia, frequentando l’oratorio e i campi estivi; ho sempre fatto il chierichetto e mi piaceva. Fino a quel punto il mio percorso era, per così dire, normale; durante il triennio al liceo Ancina di Fossano, ho incominciato a pensare a una scelta più radicale.

Fare l’animatore e il catechista era quello che mi appassionava, mi rendeva felice e mi faceva crescere. Poi ci sono stati gli incontri decisivi con i sacerdoti di Bene Vagienna, don Antonio e don Paolo.

Mi ha colpito il modello di una vita interamente dedicata agli altri, alla parrocchia e alla sua gente; mi ha colpito la figura del prete che accompagna tutti in ogni fase della vita, dalla nascita alla malattia. Si vivono esperienze di gioia e sofferenza attraverso la fede, che diventa l’esperienza centrale della vita.

 

In pochi fanno la tua scelta… Le spallate della scienza, che minaccia la visione del mondo religiosa, o gli scandali interni, come la pedofilia: quali sono le cause della crisi della Chiesa cattolica?

Penso che le cause siano molteplici.

Gli scandali non sono la causa principale. C’è la sfida dell’ateismo, la scienza che cerca di dare risposte su tutte le dinamiche.

Osservo però, da parte della gente, un incredibile bisogna di credere nella vita e in Dio che, tuttavia, spesso fatica a trovare una forma adatta, a concretizzarsi in qualcosa con cui ci si possa identificare. C’è una difficoltà, da parte dei genitori, degli educatori e dei sacerdoti, a comunicare la fede, a trovare le parole adatte per esprimerla nel nostro contesto storico; ne consegue, da parte della gente, una difficoltà a comprendere le forme della Chiesa e a farle proprie. Servirebbe tempo per questo, perché la fede è qualcosa di complesso da comprendere e difficile da vivere: il risultato è che molti, non trovando risposte immediate, diventano indifferenti.

Credo che sia finito il tempo dell’opposizione netta alla religione. Oggi la maggioranza non ha un’opinione forte, molte volte non si pone più le domande essenziali: secondo me ci troviamo di fronte ad una sorta di agnosticismo debole.

 

Da questo punto di vista papa Francesco sembra aver tentato una svolta, insistendo meno sui capisaldi della dottrina cattolica e richiamando il dovere di “rimboccarsi le mani” per il prossimo; ma la dottrina, appunto, rimane, con la sua complessità e intransigenza. Quale Chiesa vive, oggi, un giovane seminarista?

Oggi la linea è quella di mettere al primo posto le persone e non le formule, di ripartire dall’uomo chiedendosi che cosa sta vivendo oggi, quali problematiche affronta, quali sono i suoi bisogni primari. Noi, ad esempio, nei week end viviamo la realtà parrocchiale con le sue diverse esigenze, a contatto con bambini, giovani, coppie di fidanzati e di sposi, anziani, per condividere con loro il tempo della nostra formazione.

Papa Francesco ricerca ciò che è essenziale e ci chiede di mettere al centro in Vangelo. Senza il Vangelo tutto (anche la dottrina, l’educazione e la carità) perde senso.

 

Sempre Bergoglio sta cercando di trasformare la Chiesa; ma intanto, con le vocazioni, diminuisce anche il numero di persone che credono. Come vedi la Chiesa nel futuro immediato?

Oggi nelle cinque Diocesi della provincia di Cuneo ci sono circa 500 preti, fra una trentina d’anni probabilmente saranno solo più un centinaio. Penso che nei prossimi decenni non ci sarà un’inversione di tendenza. Oggi non si sa con sicurezza che cosa si potrà fare: bisognerà probabilmente ripensare la vita delle parrocchie ed aumentare la collaborazione a tutti i livelli.

Oggi, però, sono numerose le persone che desiderano che qualcuno parli loro di Dio, che qualcuno li incentivi ad interrogarsi su questo tema. Da questo punto di vista ci sono ampi spazi di azione per la Chiesa, perché la gente attende un messaggio di speranza per la loro vita e nel futuro l’interesse verso la religione continuerà a crescere, anche se i numeri delle vocazioni sacerdotali e religiose, forse, non cambieranno.

 

Da molti, il diventare sacerdoti è pensato innanzitutto come una rinuncia. Che cosa, del mondo, hai paura di perdere?

Per legarti a Cristo nel sacerdozio devi slegarti da molte altre cose.

Occorre vivere il celibato: non possiamo sposarci, né avere figli; dobbiamo ubbidire ai nostri vescovi e ai superiori; viviamo, non in ricchezza né in povertà. Sono vincoli che sembrano pesanti, ma aprono un mondo di opportunità. Immagina di essere inviato in una parrocchia dove non conosci nessuno: puoi aprirti alle persone che incontri e vivere esperienze che altrimenti non vivresti.

In questi tre anni in seminario, io ha vissuto mangiando e pregando con molte belle persone. Se avessi scelto una comune facoltà universitaria o un percorso lavorativo, non avrei potuto vivere questa esperienza che mi ha arricchito.

 

Tu dove sogni di essere inviato, una volta diventato sacerdote?

In qualunque posto. In una terra lontana di missione, in una parrocchia di montagna o – perché no? – di città.

 

Che cosa, di giorno in giorno, ti conferma che hai fatto la scelta giusta?

La serenità di fondo.  Ci sono un po’ di solitudine e di tristezza, che resteranno sempre, e un po’ di scoraggiamento, per la situazione difficile che la Chiesa sta vivendo. Ma c’è quella profonda serenità mai scalfita, data dal fatto che ti basi su Dio, che sostiene la Chiesa da sempre: se non ci fosse Qualcuno che garantisce, per i vari problemi interni, dalla cattiva gestione finanziaria ai casi di pedofilia, saremmo già gambe all’aria…

La fede ti permette di attraversare momenti difficili e te ne fa vivere altri di grande felicità, ti permette di apprezzare l’occasione che ti viene offerta attraverso il sacerdozio.

 

Come hanno accolto la tua scelta familiari e amici?

In famiglia l’hanno accolta tutti bene. Alcuni non lo manifestano e magari non approvano pienamente la mia scelta; ma vedendo come la vivo, penso ne siano soddisfatti.

Dagli amici mi sento accolto, da alcuni anche sostenuto. La mia scelta ha destano grande curiosità, anche da parte di quanti hanno posizioni molto diverse rispetto a me sulla fede: ed è utile confrontarsi, relazionarsi con chi è più lontano.

 

Da sacerdote, come cercherai di avvicinare la gente?

Se riusciamo ad essere coerenti, possiamo essere una pietra di inciampo, che spinge la gente ad osservare le cose sotto una luce diversa. La gente rimane colpita, anche se poi non ti deve per forza seguire. E credo che questo sia quello che più ci avvicina al modello di Gesù, più di una Chiesa che ha ingerenza in tutti gli ambiti esterni e che deve dettare la linea. L’incontro con lui non lasciava mai indifferenti, indipendentemente dal fatto che alcuni scegliessero di seguirlo e altri di tornare alla loro vita.

Vorrei colpire la gente mostrando un’esperienza di vita che  è allo stesso tempo ordinaria e diversa, che non è disumanizzante ma è piena,  aperta ad ogni uomo e pronta ad accogliere chi ha più bisogno.


Andrea Ottolia

Articolo tratto dal settimanale diocesano "La Fedeltà"

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